martedì 12 dicembre 2017

Hachiko, il cane che aspettava


"Questa era la routine settimanale del professor Eisaburo: andava ogni mattina alla stazione accompagnato da Hachiko, passava la giornata alla Todai, tornava in treno, lo trovava alla stazione di Shibuya e nei fine settimana passeggiavano insieme, finché le gambe lo reggevano. E quand'era di nuovo lunedi, prendeva il treno di buon mattino mentre Hachiko tornava a casa e passava la giornata a poltrire e a dormicchiare finché l'orologio svizzero che aveva dentro lo avvisava che stava arrivando il treno da Tokyo. E allora, come se qualcuno avesse acceso la miccia di quel razzo supersonico, galoppava verso la stazione per aspettare il professore, quasi ne andasse della sua vita."


La storia di Hachiko è nota, ha commosso generazioni di persone sparse in tutto il mondo, vale la pena spendere due parole per ricordarla. Hachiko era un cane di razza akita che visse 11 anni (10 marzo1923 - 8 marzo 1935). Aveva pochi mesi di vita quando andò a vivere nella casa del Professor Eisaburo Ueno, nel quartiere di Shibuya, sostenendo un viaggio di 500 km in treno. Il professor Ueno era pendolare per esigenze di lavoro (era professore presso il Dipartimento Agricolo dell'Università Imperiale di Tokyo), quindi ogni mattina si recava in stazione a prendere il treno, e il cane lo accompagnava ogni mattina; e ogni pomeriggio, quando il professore tornava dalla giornata lavorativa, tornava in stazione ad attenderlo. 


Il 21 maggio del 1925, il Professore Ueno morì improvvisamente e inaspettatamente, colto da ictus mentre teneva una conferenza all'Università di Tokyo. Hachiko trascorse i rimanenti 10 anni della sua vita ad attendere il suo ritorno, in stazione. Ogni giorno, alla stessa ora, si metteva nella piazza della stazione per vederlo scendere dal treno. Gli abitanti del quartiere incaricarono lo scultore Teru Andu di fargli una statua, che fu inaugurata nel 1934, alla cui inaugurazione assistette il cane stesso. Hachiko morì di filariosi l'8 marzo del 1935, nella stessa piazza dove aspettò invano, per anni, il professor Ueno. La statua di Hachiko venne fusa durante la Seconda guerra mondiale; nel 1948, Takeshi Andu, figlio di Teru, ricevette la commissione di realizzare una nuova statua raffigurante il cane, da posizionarsi nello stesso posto della precedente. Ogni 8 marzo, anniversario della sua morte, si si rende omaggio ad Hachiko nella piazza di Shibuya, e la statua si riempie di fiori, Hachiko venne seppellito in una casetta di pietra costruita ai piedi della tomba del professore, nel cimitero di Aoyama, dove permangono alcune sue ossa. Anni dopo venne imbalsamato, e lo si può vedere al Museo Nazionale di natura e Scienza di Tokyo. La storia di Hachiko fu presa a spunto per alcuni racconti per bambino, e sulla sua vita sono stati realizzati due film: "Hackiko monogatari" (1987) e l'adattamento nordamericano che ebbe come protagonista l'attore Richard Gere, "Hachiko, il tuo migliore amico".


La struggente storia di Hachiko si riempie di nuove suggestioni in questo romanzo scritto dall'autore  catalano  Lluis Prats Martinez, illustrato dall'artista polacca Zuzanna Celej, edito in Italia da Albe Edizioni. Organizzato sotto forma di un ipotetico diario, il racconto è diviso in due parti: la prima si svolge a partire dal Gennaio del 1924 fino al Maggio del 1925, e ripercorre il breve ma intenso periodo di convivenza tra il cane e il professore, fino al momento della sua morte; un anno e mezzo ricco di spunti poetici, in cui i due costruiscono il loro simbiotico rapporto, scandito attraverso le lunghe passeggiate nel parco, i discorsi fatti dal professore al cane, e che lui sembra intimamente comprendere, rispondendo con gli sguardi.

".. il professore Ueno uscì in giardino, dove Hachiko guardava le stelle. Si sedette accanto a lui e lo accarezzò. La notte era nera e fresca, ma talmente limpida che si potevano vedere migliaia di stelle tremanti al buio.

"Vedi le Pleiadi che illuminano il cielo?" disse il professore indicando in alto. "Questo vuol dire che si avvicina il momento di affilare le falci. E quando si spengono, bisogna usare l'aratro, perché staranno lontane circa quaranta giorni; le viti si devono potare quando Arturo sorge dal mare, e la vendemmia inizia quando Orione e Sirio arrivano a metà del cielo".

Hachiko girava la testa all'insù e poi l'abbassava per guardarlo, come se capisse i suoi discorsi. Forse non capiva niente, ma gli bastava la voce grave del suo padrone che lo coinvolgeva e gli raccontava tutto quelle cose".

La narrazione si fa strada attraverso suggestivi scorsi poetici in cui respira il battito della natura, nell'alternarsi delle stazioni; il racconto è impreziosito dagli acquerelli vividi, toccanti, soavi. Il cane, quell'ultimo giorno, respira il presagio dell'imminente morte, e tenta di trattenere il proprio padrone nel tentativo di impedirgli di uscire.


La seconda parte del racconto, dalla morte del professore alla morte del cane, ripercorre i dieci anni in cui Hachiko si reca puntualmente in stazione ad aspettare il ritorno del proprio padrone. La vedova di Ueno si trasferisce, e il cane viene dato in affidamento, a persone insensibili che lo maltrattano, e da cui fugge, tornando in stazione, sotto in vagone ferroviario che elegge a rifugio. Ogni giorno, alla stessa ora, per dieci anni, il cane attende il fatidico treno. Hachiko viene idealmente adottato dalla comunità che, commossa da tanta amorevole ostinata fedeltà, gli dona qualcosa per sfamarsi, lo intrattiene con alcune carezze, opponendosi al tentativo di trasferirlo al canile. Se la prima prima parte del libro scorre più ipnotica e circolare, la seconda procede più lineare e scossa, fino all'atto finale, di una poesia musicale, che come neve al sole si scioglie in lacrime. Per me è come una sinfonia; o la esegui integralmente, o niente. 


"A mezzanotte la neve incominciò ad ammucchiarsi intorno a lui, ma Hachiko rimase disteso davanti alla porta. Il silenzio che accompagna la solitudine era tagliato da un vento affilato come un coltello, che gli penetrava nel petto magro come un ago di sarta. Aveva gli occhi mezzi chiusi perché le raffiche di neve gli impedivano di vedere la porta, ma stava lì, nel caso quella fosse la sera scelta dal professore per ritornare. Aveva il naso ghiacciato e tremava. Era l'unico a non saperlo, ma la sua vita stava finendo, come una candela o come un bastoncino d'incenso che ha profumato il tempio e del quale restano solo le ceneri.


Ad un tratto, fra la nebbia invernale che avvolgeva i binari, sentì un fischio lontano. Era una locomotiva che avanzava lentamente in mezzo alla neve. Una cosa strana, perché l'ultimo treno era arrivato a Shibuya più di tre ore prima e alla stazione non c'era più nessuno, neanche il capostazione Sato, né la signora Shuto, né Ibuki, che se n'era andato maledicendo il freddo. Hachiko tentò di alzare un orecchio, ma il cuore gli batteva appena. La vita che ancora gli restava fuggiva al ritmo del treno che entrava in stazione sferragliando. Ma quello era un treno come mai se n'erano visti a Shibuya, perché era bianco e dorato. La locomotiva sembrava d'oro, i finestrini erano talmente luminosi da abbagliare e se qualcuno l'avesse visto avrebbe detto che le sue ruote erano fatte di cristallo. Neanche Hachiko lo vide, perché aveva già chiuso gli occhi per non aprirli mai più. Per qualche secondo non accadde nulla. Solo si sentirono i fischi del vapore che sfuggiva dalla locomotiva mentre frenava sul binario. Sembrava che da quel treno non fosse sceso nessuno, ma poi le nubi e la nebbia si dissolsero e si vide che il cielo era pieno di stelle, come macchioline sospese, azzurre e bianche. Nel preciso momento in cui Hachiko chiudeva gli occhi per non aprirli mai più, la porta della stazione si aprì lentamente e un bastone col puntale d'argento incominciò a battere sul selciato.

"Sei ancora qui Hachiko?" gli sorrise il nuovo arrivato. "Me lo aspettavo. Bravo. Mi dispiace che tu abbia dovuto aspettarmi un po' più del solito, oggi, ma ho perso il treno".


Hachiko aprì gli occhi e non credette a ciò che aveva davanti. Aveva aspettato dieci anni per ritrovarsi con lui, ma finalmente era lì, alla stazione. Il professor Eisaburo Ueno, Hachiko lo sapeva già, non si era dimenticato di lui. Ed eccoli lì, appena sceso da quel treno che aspettava da dieci anni. Hachiko tentò di guaire, ma non osò emettere alcun suono quando sentì una mano familiare che gli accarezzava il pelo.

"Su, andiamo", sussurrò il professore Ueno. "Oggi si che potrai accompagnarmi e salire sul treno. Ti avevo promesso che un giorno l'avresti preso, ricordi? E le promesse solenni si mantengono".

Hachiko si alzò tremando e lo seguì, incollato ai suoi pantaloni. Entrambi salirono passo passo sugli scalini della vecchia stazione di Shibuya, arrivarono sulla banchina e allora Hachiko vide per la prima volta il treno. Ma prima di salire, il professore si volse un attimo, perché da una casa vicina gli giunse una voce chiara, limpida e vibrante di una geisha che cantava una canzone popolare:

I fiocchi di neve cadono lentamente.
Cadono senza fine e si accumulano.
Tutte le montagne e i campi sono coperti
da candidi batuffoli di cotone.

"Senti la canzone, Hachiko? E' la signora Sasaki. Canta ancora molto bene. No, non fermati qui. Oggi vieni con me. Ricordi che un giorno ti ho promesso che saremmo tornati al mare? Quel giorno è arrivato. Era una promessa solenne, e queste non si rompono. Mai".

Hachiko guardò il padrone e con un saltello salì sul vagone dorato e si acciambellò in braccio a lui come aveva fatto quando aveva pochi mesi, e un'altra volta sentì il calore delle sue mani sul dorso. Ebbe paura per un attimo, perché quello era il primo ricordo del professore, un ricordo che veniva da un'epoca incerta, ma cosa importava? Il calore lo riempiva di nuovo da dentro.Il professore sorrise e Hachiko si addormentò all'istante mentre quelle mani lo accarezzavano. La locomotiva fischiò pigramente, annunciando che usciva dalla stazione diretta a sud, e il suo fumo riempì tutto il quartiere, mentre dense colonne bianche come la neve tingevano il cielo nerissimo di Tokyo.


Qualche ora più tardi, quando il sole cominciò a fare capolino tra la nebbia di quel nuovo giorno di marzo del 1935, quando i primi boccioli dei mandorli avevano incominciato a fiorire e le nevi del Fuji scintillavano nel crepuscolo, il capostazione Sato trovò Hachiko disteso davanti alla porta della stazione. Aveva trascorso lì la notte aspettando il professor Ueno; l'ultima cosa che aveva fatto in vita sua. Poi arrivò Ibuki, che rimase di sasso alla vista della scena. Insieme lo presero in braccio e si misero a piangere singhiozzando, perché Hachiko era freddo come un fiocco di neve. Quando lo deposero dentro alla stazione, il capostazione Sato si soffiò il naso e lo stesso fecero Ibuki, la signora Shuto, quando arrivò per aprire il suo negozio, la geisha Mio Sasaki, che tornava a casa, il padrone del negozio di alimentari Matsumoto e la pescivendola Fujiwara, perché li avevano informati di aver trovato Hachiko morto. A poco a poco si radunarono intorno al cane decine di viaggiatori. Molti, quel giorno, persero il treno. 

"Ha finito di aspettare", disse la signora Shuto, asciugandosi le lacrime. "L'attesa è terminata, Hachiko".

Ciò che nessuno di loro sapeva è che a molti, moltissimi chilometri dalla stazione di Shibuya, sulle sabbie dorate di una spiaggia infinita, passeggiava un vecchio professore di agricoltura, e al suo fianco, come il padrone gli aveva solennemente promesso, un cane correva allegro fra le onde, creando figurine di spuma e sale." 

Qui termina il viaggio di Hachiko nella vita terrena, e ne inizia un altro, tra le braccia dell'eternità.

"Hachiko, il cane che aspettava" - Lluis Prats, Zuzanne Celej - Traduzione di Alberto Cristofori - Albe Edizioni

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